Te la dico semplice: oggi fidarsi è un lusso che non ci possiamo più permettere. Non nel digitale, almeno. Siamo passati dall’epoca del “metti l’antivirus e via” a quella in cui la cybersecurity zero trust non è un capriccio da smanettoni paranoici, ma una questione di sopravvivenza aziendale. E non sto esagerando.
Ormai, se lasci anche solo una finestra aperta, non entra l’aria fresca… ma un bel ladro con le chiavi in mano e i guanti bianchi. Ti svegli la mattina e scopri che qualcuno si è già servito dalla tua dispensa. E magari ti lascia pure il bigliettino con scritto “grazie”.
Il tempo della fiducia cieca è finito (e forse è meglio così)
Una volta era diverso. C’era l’idea che se eri dentro il perimetro, eri dei nostri. Come in quegli uffici in cui, appena varchi la porta, sei “della ditta”. Ma oggi? Col cavolo! Il perimetro non esiste più. Smart working, cloud, dispositivi che spuntano come funghi… È un po’ come invitare mezzo mondo a casa e sperare che nessuno rovisti nei cassetti. Ti sembra saggio?
Ecco perché il modello cybersecurity zero trust cambia le regole del gioco: niente più fiducia predefinita, ma controllo costante, come se ogni giorno fosse il primo colloquio di lavoro. Chi sei? Che ci fai qui? Che cosa vuoi toccare? E se anche superi la prima porta, ce ne sono altre dieci da aprire, ognuna con la sua chiave. Un po’ pesante? Sì. Ma quante volte hai pensato “se solo avessi chiuso meglio quella porta”? Ecco.
Perché senza zero trust rischi grosso (e non è solo questione di soldi)
Sai qual è la cosa che mi fa sorridere, amaramente? Che molti pensano ancora che un attacco informatico sia roba da film hollywoodiani. Tipo i tizi incappucciati che digitano a raffica in una stanza buia. La verità è molto più banale: gli attacchi succedono, punto. E spesso bastano una password debole o un clic sbagliato.
Se non hai una cybersecurity zero trust alle spalle, è un attimo passare da “azienda in salute” a “disastro su tutti i giornali”. E no, non esagero. L’ho visto succedere, ed è una scena che non dimentichi. Dati rubati, clienti che ti voltano le spalle, reputazione andata in fumo. E il bello è che chi ci passa non se l’aspetta mai. Fino al giorno prima si sentivano al sicuro, poi… crack.
Con il modello zero trust, invece, è come mettere un sistema di sicurezza in banca, non nella casetta degli attrezzi. Ogni azione viene controllata, ogni movimento registrato. Entri solo se hai titolo per farlo, e anche quando entri… ti tengono d’occhio. Non si scappa.
Da dove si parte? Dal capire che non si finisce mai
Ti dico la verità: se pensi che implementare la cybersecurity zero trust sia una roba che fai una volta e poi buonanotte… lasciamo stare. Non è così. È un processo continuo, un’evoluzione costante. Ma non è neanche quel mostro a sette teste che tutti temono.
Si comincia a piccoli passi. Parti dalle identità: chi accede ai sistemi? Che autorizzazioni ha? Gli bastano? O gli stiamo regalando l’accesso a stanze in cui non dovrebbe mettere piede? Poi si lavora sui dispositivi. Lo so, sembra ovvio, ma quanti dispositivi si connettono alla rete ogni giorno? E di quanti hai davvero il controllo?
Il bello (o il brutto, dipende dai punti di vista) è che il zero trust non finisce mai. È una mentalità. Una filosofia, se vogliamo. Non è paranoia: è attenzione. Come quando chiudi bene la porta di casa prima di partire per le vacanze. Non perché pensi che ti deruberanno, ma perché non hai voglia di passare settimane con quell’ansia addosso.
Gli intoppi non mancano, ma fanno parte del gioco
Te lo dico senza peli sulla lingua: ci sarà chi si lamenterà. “Ma perché dobbiamo fare tre login per accedere a quel file?”, “Perché devo usare sempre l’autenticazione a due fattori?”… Le solite storie. E lì toccherà spiegare che non è questione di complicare la vita a nessuno, ma di evitarci casini più grossi. E poi, diciamolo, l’abitudine arriva in fretta. Come con le cinture di sicurezza: all’inizio ti danno fastidio, poi non puoi più farne a meno.
Certo, qualche difficoltà c’è. I sistemi vecchi non aiutano. E mettere in piedi tutto costa tempo e risorse. Ma cosa c’è che vale di più della sicurezza? Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che la prevenzione costa sempre meno della cura.
Qualche storia che ti fa alzare le antenne (o almeno ci spero)
Ti racconto una scena che ho visto con i miei occhi. Un’azienda tranquilla, ambiente sereno, tutti convinti di essere in una botte di ferro. Poi un attacco. Partito da un dispositivo infetto. Uno smartphone, figurati. E da lì, piano piano, l’intruso si è mosso come una serpe nel grano. Ha girato, curiosato, aperto porte che nessuno aveva pensato di chiudere a chiave. E il risultato? Giorni di panico, file persi, clienti furiosi.
Se avessero avuto un modello cybersecurity zero trust già attivo, sarebbe stato un altro film. Il dispositivo infetto sarebbe stato bloccato subito, senza margine di manovra. Ma purtroppo hanno aspettato. Troppo. E hanno pagato caro quel ritardo.
In conclusione? Non aspettare che ti piova in casa
Se sei arrivato fin qui, spero di averti fatto venire qualche dubbio sano. Di quelli che fanno scattare una molla. Perché la cybersecurity zero trust non è la soluzione perfetta, ma è quella più vicina al concetto di sicurezza che possiamo avere oggi. È un po’ come installare un antifurto mentre i ladri sono ancora in strada, non quando li trovi già in soggiorno.
Se posso darti un consiglio, da uno che ha visto situazioni brutte e ha imparato a sue spese: non aspettare che succeda qualcosa per muoverti. Il tempo delle mezze misure è finito. E quando si tratta di proteggere la tua azienda, i tuoi dati e la fiducia che i clienti ripongono in te… non c’è niente di più importante.